
I tuoi compagni di scalata sono già andati via ma tu hai voluto fermarti un po’ da solo sotto le pareti. Sai che ad un certo punto del pomeriggio scende una brezza da nord a far dondolare le cime dei faggi e degli abeti e ad accarezzare le pareti di roccia, e ti piace credere che venga a spazzare via il caldo e i sudori della giornata, le fatiche degli scalatori, le grida di successo di chi è arrivato in cima e i mugugni di delusione di chi non è riuscito a chiudere i suoi progetti. È un’aria pulita e tesa che ti muove i capelli e ti si infila nel colletto della felpa facendoti rizzare i peli delle braccia e della schiena.
La aspetti come una consolazione e speri che ti liberi da tutte le tue elucubrazioni su tecniche e méthode, da tutti i ragionamenti su ogni singola presa, cengia, tacca, dai tentativi andati a vuoto.
Speri di sentirti giustificato nei tuoi fallimenti, speri che il vento calmi le tue ambizioni e lenisca la rabbia di non averle realizzate. Che ti faccia accettare di essere solo un uomo davanti alla natura.
Invece tutto ciò che accade è che ti ritrovi ancora incartato a ragionare di logiche che spiegano con formule complesse quello che in realtà è semplice: c’è una parete di roccia e ci sono le persone, c’è chi sale e chi no.
Mentre ti riperdi nei meandri delle tue speculazioni, il crepuscolo inizia a stemperare l’azzurro del cielo e ad appesantire i colori del sottobosco, così ti tocca chiudere la felpa, buttarti in spalla lo zaino e incamminarti.
Hai parcheggiato tra le case della contrada sopra le pareti, vicino al bar dove adesso i tuoi compagni staranno ridendo chiassosi tra birre e panini al salame, ma l’unica cosa di cui hai voglia è una camomilla che plachi la rabbia che gli insuccessi ti fanno montare ogni volta che le tue perfette teorie si schiantano contro le sporgenze delle rocce.
E non solo le teorie, ci si schiantano anche le tue ginocchia che ora ti fanno male, come ti fanno male i piedi che hai tenuto per troppo tempo strizzati dentro le scarpette fermo a guardare quei passaggi critici a cui non ti sei nemmeno avvicinato.
Così cammini indolenzito spingendo i piedi e maledicendo questa strada che stamattina hai ammirato come una amena striscia d’asfalto sul colmo della dorsale, tra morbidi prati punteggiati di poche case, aperta sulla valle e sulla pianura che si stende placida fino a mostrare le pendici degli Appennini lontane, laggiù dove altre persone stavano senz’altro camminando come te e come te ammirando le pendici lontane e sfumate di azzurro.
Ora non vedi niente. Il dolore, i pensieri, la stanchezza ti fanno tenere la testa china, fissa sui piedi che trascini per questa salita lunghissima che non avevi considerato e che aggiunge fatica alla fatica.
È solo la sensazione di essere osservato che ti fa capire di aver raggiunto le prime case della contrada. Alzi gli occhi e te lo trovi davanti.
È seduto sul bordo di un muretto con la schiena appoggiata alla ringhiera. Le gambe piegate in modo sgraziato calzano un pantalone di fustagno a coste marron, liso e impolverato sulle ginocchia. Sembra sul punto di doversi muovere per la scomodità, invece rimane perfettamente fermo e a suo agio.
La camicia di flanella pesante a quadrettoni blu e bordò su fondo giallino è attraversata da una improbabile coppia di bretelle elastiche color rosso vivo che sostengono la vita dei pantaloni in modo quasi ridicolo, ma lo sguardo con cui ti fissa, che attraversa secco le lenti tonde, non ammette ilarità. La montatura di metallo dorato poggia su un naso a patata lustro come la pelle del viso tondo da cui spunta. La carnagione rosa sale omogenea dal mento leggermente sporgente fino al cranio calvo incorniciato ai lati da cespugli di capelli bianchi.
Ti fissa, sembra che ti squadri dalla testa ai piedi.
“Te sì massa belo” ti dice “massa studià.” (1)
Preso alla sprovvista e in pieno disagio provi a voltarti per vedere se c’è qualcun altro o se sta parlando proprio a te, ma lui ti ferma.
“Sì, sto parlando con ti. Quanto gh’eto pensà? A la roba che te gh’è indosso, a come tajarte i cavei, a cosa portarte drio? Quanto gh’eto pensà?” (2)
“Be” balbetti “voglio essere pronto, io faccio questo sport, scalo le rocce, c’è bisogno di metodo, di un sistema.”
“E te seiti a pensarghe, era? E no te fe la sola roba che te g’aressi da far: mòarte” (3)
Ti rendo conto che, mentre lui parla, la tua faccia ha iniziato a colorarsi di una cacofonia di sensazioni: stupore, imbarazzo, fastidio.
Non sai cosa lo abbia acceso, ma gli occhi del vecchio si sono fatti vispi e pungenti e inizia a parlare a ruota libera.
“I è quei bei come ti che resta zo. Che a parole i moe mari e monti ma quando i torna a casa no i à combinà gnente. Che i pensa che le robe le g’abia da essar sempre al so posto, ben combinè. Ardate lì: majetina, bragheta, capelin, tuto giustà. Via de la musa, che l’è quela de uno che no à mai capìo da che parte voltarse par vegnar zo dal leto.” (4)
Ti attacca, sembra un cacciatore che ha stanato la preda e infierisce per godersi il momento della cattura.
“Se te vol star lì continua così. Ten tuto in ordine e sta fermo a guardar quei che va su. Quei che se moe i è quei che no ghe pensa insima, che parte anca se i no g’à tuto a posto, che scominsia, e se no i è pronti i ghe deventarà. Che se moe nel disordine, la vita l’è lì, se te vol vivar te gh’è da moarte nel disordine. Altrimenti te resti zo.” (5)
Adesso la sua faccia è quella di un giudice che ha emesso la sentenza, ti pianta addosso un ultimo sguardo, poi si alza e, con un’agilità e una rapidità insospettabili, entra nel cancelletto a fianco e sparisce dietro l’angolo dell’edificio alle sue spalle.
Rimani lì, infastidito e confuso, irritato più che dalle sue parole dalla consapevolezza che ha ragione, che ti ha stanato, che ti ha beccato in pieno questo cacciatore che conosce le sue prede e le colpisce dritte, senza lasciar loro scampo.
Appena esce dalla tua visuale alzi gli occhi sulla costruzione che hai davanti, una casa? No: una baracca, forse un capannone o un rifugio, un bivacco. O niente di tutto questo.
Sul cancello da cui è entrato c’è scritto con dei tondini di ferro la parola “isba”, come le case di campagna russe, rifugio e salvezza di tanti italiani disperati dopo la disfatta sul Don.
Sul muro della costruzione altre scritte e disegni (6): “in Anfang war die Tat”, “E=mc2”, la rappresentazione della fotosintesi clorofilliana.

Entri dal cancello anche tu, segui i suoi passi per ritrovarlo, ma non c’è nessuno. Sopra una scala due gatti sonnecchianti muovono appena la testa per guardare il nuovo venuto.
Tutto intorno una marea di oggetti eterogenei sparsi ovunque, parlano di energia e caos, parlano di azione, di vita e di movimento.
Tutto il contrario della tua di vita, dedicata alla ricerca dell’ordine, all’attesa del momento adatto, alla progettazione spasmodica, alla pianificazione di ogni dettaglio, così metodica da non completarsi mai e da non concretizzare mai il progetto. Contraria anche allo sport che dici di fare: l’arrampicata, il farsi strada dove le strade non ci sono, figlia per sua natura del caso e dell’azione.
Esci dal cancello con una sensazione strana, come se ti fossi reso conto che ti manca qualcosa ma non sai cosa.
Arrivi al bar, entri. I tuoi compagni se ne sono già andati. C’è solo un signore anziano seduto al primo tavolo, un vecchio montanaro storto, conciato e consumato dal vento, dalla pioggia, dal sole e dalla terra. Indossa un pile rosso vivo con inserti neri sopra un paio di pantaloni di lana grigi di un vecchio vestito buono, ai piedi ha scarponcini col carrarmato. Il viso è scavato e mal rasato, i capelli sono foltissimi e bianchi come la neve. Sorride mentre discute col barista dei risultati del Verona, davanti a sé ha un quartino di rosso che guarda con occhi azzurri scintillanti appena velati dalla foschia degli anni.
Ti siedi ad un tavolo, ordini la camomilla. Mentre aspetti ascolti l’anziano: parole sconclusionate alternate a frasi lucide.
Però lui e il barista ridono di gusto, come fossero un duo comico. Ti sembra di stare in un film di Stanlio e Ollio e ti viene voglia di intervenire, di entrare in quella piccola baraonda verbale. Cerchi un aggancio per inserirti ma ogni volta che lo trovi le parole del vecchio sono già corse più avanti delle tue e rimani zitto.
Arriva la camomilla e i consueti gesti di mettere il filtro nella tazza, strizzarlo col dorso del cucchiaino, toglierlo, appoggiarlo sul piattino, mettere mezza bustina di zucchero, mescolare, assaggiare, mettere l’altra mezza, rimescolare, riassaggiare, ti fanno perdere il filo del discorso.
Finisci la routine mentre i due stanno scoppiando in una sonora risata. Un attimo dopo l’anziano si alza, si mette in testa un cappello di feltro grigio con due piume di merlo arruffate e, con l’ultimo lampo di ironia, saluta tutti:
“Stame ben Lucio, l’è l’ora de L’eredità. E bonasera anca a lù sior, el staga atento a no scotarse la lengua con quela roba lì”. (7)
Rimani lì ancora più zitto con le mani attorno alla tazza e di nuovo la sensazione che ti manchi qualcosa. La prossima volta, magari, capirai cos’è.
Franco Zanella
Nota dell’autore:
Racconto liberamente ispirato alla casa e alla figura di don Alberto Benedetti, el prete del Serè (il prete di Ceredo), detto anche “il prete dei castagnari”, “il prete anarchico” o “don dinamite”, che oltre ad essere sacerdote, spesso in contrasto con le gerarchie e l’autorità, ha operato come scrittore, storico, sociologo, paleontologo, ma anche come imprenditore, geometra, operaio, muratore, idraulico, elettricista e, non ultimo, come appassionato cacciatore.
Figura importante e contraddittoria, ha dato impulso allo sviluppo della Lessinia occidentale, limitando lo spopolamento della frazione natìa di Ceredo, dove è vissuto fino al 1997.
Per chi volesse approfondire :
- “Il prete dei castagnari” – Alessandro Anderloni – Gianni Bussinelli editore
- www.donalbertobenedetti.it
Ringrazio Massimo Marconi per lo stimolo ad inventare una storia ispirata a questo personaggio.
Note al testo:
(1) “Sei troppo bello, troppo studiato.”
(2) “Sì, sto parlando con te, quanto ci hai pensato? Ai vestiti che indossi, al taglio di capelli, a cosa portare con te? Quanto ci hai pensato?”
(3) “E continui a pensarci, vero? E non fai l’unica cosa che dovresti fare: muoverti”
(4) “Sono quelli belli come te che rimangono a terra. Quelli che a parole muovono mari e monti ma poi tornano a casa che non hanno fatto niente. Che pensano che ogni cosa debba essere al suo posto, bene ordinata. Guardati: maglietta, pantaloni, cappello, tutto perfetto. A parte il muso, che rimane quello di uno che non ha mai capito da che parte girarsi per scendere dal letto.”
(5) “Se vuoi restare a terra continua così. Tieni tutto in ordine e resta a guardare quelli che salgono. Quelli che si muovono sono quelli che non pensano, che partono anche se non c’è tutto a posto, che iniziano, e se non sono pronti lo diventeranno. Che si muovono nel disordine, la vita è lì, se vuoi vivere ti devi muovere nel disordine. Altrimenti resti a terra.”
(6) “In principio era l’Azione” parafrasi dell’incipit del vangelo di San Giovanni “in principio era il verbo” presa dal Faust di Goethe. E=mc2 formula della trasformazione dell’energia in materia e viceversa. La fotosintesi clorofilliana è la trasformazione della luce in energia chimica.
(7) “Stammi bene Lucio, è l’ora de L’Eredità. E buonasera anche a lei signore, stia attento a non scottarsi la lingua con quella roba!”
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