Il Sengio di Sergio

Caro Sergio,

ti scrivo anche se sono immerso in un caos di pensieri. Ed è già la seconda lettera che straccio. Non ho la confidenza che mi permette di alzare il telefono e chiamare, tanto meno quella di mandare un messaggio su WhatsApp.

Una lettera mi sembra il modo più giusto per arrivare a te. A suo modo è intima, parla dal dentro, dall’emozione condivisa del nostro operare in parete. Allo stesso tempo riconosce una certa distanza, quella che ci divide da un punto di vista geografico e anagrafico.

Ti scrivo perché ho avuto l’opportunità di aiutare con la mia associazione, fornendo il materiale necessario, un corso per aspiranti Guide Alpine.

Un nutrito gruppo di ragazzi, sotto la guida dei loro istruttori, ha preso contatto con tutto ciò  che riguarda le opere di chiodatura. Trapani, tasselli, corde ma, soprattutto, con la fatica e il peso dello zaino colmo di inox. L’occasione di metter mano al tuo “Sengio” era imperdibile. Quando mai saremmo stati in grado di riprendere in mano quei torrioni grigi compatti che rischiavano di finire nell’oblio. Immagino sia da un po’ che non sali sotto la parete ma ti posso garantire che la vegetazione si era ripresa quel tanto che basta per rendere difficile l’arrampicata in tutto il settore destro, quello meno verticale e tutto sommato più facile: i rovi alla base, l’edera tra le fessure, la terra nei ripiani orizzontali. Le tasche di questi jeans di roccia grigia erano piene di terriccio buono solo per coltivare gerani.

Mi sei tornato alla mente mentre salivo in modalità 4×4, carico come un minatore della Serra Pelada, la ripida rampa finale che porta dal “Sengetto” al “Sengio” vero e proprio. Ho ripercorso in modo personale quel racconto che si tramanda di voce in voce tra chi ti conosce bene.

Tu che scappi al Sengio con il tuo parente “di Milano”. Il via libera ottenuto con una bugia raccontata a tuo padre che non voleva proprio saperne della tua passione per la roccia. Era il 1978, o giù di lì. 

Tu che risali in pantaloni corti e calzettoni di cotone bianchi, e alti fin sotto il ginocchio, quel lungo sentiero che difende il Sengio Rosso. Quaranta minuti di avvicinamento al “partenone” che sovrasta Caprino – che non è Atene – attraversando boschetti e radure con dentro allo zaino un quantitativo indefinito di fettucce annodate da indossare a tracolla e il sacchetto delle ciabatte “De Fonseca” riciclato come porta magnesio. Ti immagino colmo di curiosità, lanciato verso quelle impassibili macchie grigio/rosse che rimangono inalterate durante le stagioni e che sono il metro di misura stabile a far da sfondo al cangiante colore che gli ruota attorno contando gli anni che passano. L’arrivo del bianco della neve a sostituire le sfumature di verde del bosco aggiunge l’ennesimo “più uno” al dopo Cristo.

Si narra che tutto ebbe inizio così, con una “fuitina” verso la roccia, armato di chiodi e martello. È nata così la “via del Sas”. Più che immaginare, conosco la tua fatica e lo zaino pesante, fatica che oggi è ben chiara anche ai ragazzi che hanno trasportato alla base della parete l’occorrente per ripulire e richiodare.

Ma costruire i coperchi alle bugie, oggi come allora, è molto più difficile che fare le pentole e la tua prima esperienza al Sengio – iniziata con una menzogna – è finita in un mare di sangue. Il “Sas” che ti è rimasto in mano mentre aprivi la via dal basso, quel “maroccolo” che hai dirottato fuori dalla verticale del tuo compagno di cordata, ha dato il nome alla via ma si è preso parte della tua pelle e  forse anche altro… La mano schiacciata dalla “Pietra del Sengio” ha lasciato uscire il sangue pompato da un cuore che non era già più tuo. Era già del “rosso” di quella pietra, semplicemente rapito. Un rosso striato da colate grigie come  “Criniere di cavallo” nel settore di sinistra più verticale.

Sergio e Sengio, Sergio è Sengio: più che una rima è un risuonare con quella parete. Non ho nessuna difficoltà a supporre una seconda bugia per chiudere la giornata. Quel Sengio Rosso lo dovevi difendere anche dal divieto paterno.

Il resto è storia e lo dicono i nomi che hai dato alle tue prime vie, Rol-Cigno-Mania per fare il verso alla famosa via di Finale “GrilloMania”, ma poiché eravate in due: Carlo Laiti (Rol) e tu (Cigno), con un viaggio nel finalese da ricordare, ecco “Rolcignomania”. Luna Bing come una piccola “Luna Bong” che dal Verdon e dai tuoi sogni è atterrata sotto le pendici del Baldo. Il Sengio che si scala è nato così, aprendo itinerari dal basso – salendo fino in cima vie che oggi sono facili ma erano dure per l’epoca e vie che tutt’ora sono di riferimento per difficoltà.

Mi fermo qui perché sono storie riportate, anche se suonano così bene che mi sembra di sentirle raccontare nella spensieratezza e nel calore di casa tua mentre prepari per cena, con Giuliana a fianco, un risotto con le noci ad un ospite gradito.

Ma, caro Sergio, devo deluderti… quella tua prima via, spiace dirtelo, credo sia ancora sotto l’edera. Abbiamo recuperato tanto e qualcosa abbiamo aggiunto, nel totale sono state sistemate oltre quaranta vie. Abbiamo cercato di lasciare meglio di come abbiamo trovato e l’abbiamo fatto con lo stato dell’arte per quanto riguarda i materiali usati, cercando di rendere il più duraturo possibile questo sforzo ma la tua “via del Sas”, a destra di “Castelli d’aria” è ancora nascosta e un giorno sarà nuovamente da riscoprire. 

Del resto, le linee di una falesia sono come le linee d’una mano, o le strade di una città: possono cambiare nel tempo. Si adeguano agli occhi nuovi di chi le frequenta, alle nuove possibilità e alle nuove capacità. Non volermene quindi se qualche linea è cambiata o se le prime tre protezioni sono state modificate. Oggi nessuno sale più in falesia con l’idea di non tornare a casa sulle proprie gambe e, in fondo, una falesia obbligata a restare immobile e uguale a sé stessa per esser meglio ricordata è una falesia destinata all’oblio, come la città di Zora descritta da Calvino, dimenticata anche dalla Terra.

Le falesie sono anche questo, reticoli di linee che aiutano la memoria. Tra una via e l’altra ognuno inserisce a suo modo i propri ricordi correndo il rischio di vivere di nostalgia e con lo sguardo sempre rivolto al passato. Sarebbe rassicurante fosse così, ma tutto evolve e senza dir nulla pergiunta! Anche i desideri di chi vive una falesia cambiano nel tempo, senza per questo essere migliori o peggiori. Sono “divinità” diverse che orientano i nostri modi di fare, poli attrattivi che si sono dati il cambio senza aver alcun rapporto tra di loro: la tua conquista dell’ignoto, la tua ricerca della linea è diventata la ripetizione in pochi giri o il portare la corda in catena. Delle falesie rimane fermo solo il nome ma in realtà, piaccia o meno, nel tempo futuro i vari “Sengio Rosso” possibili si sovrapporranno senza aver nulla da spartire tra di loro. Ma questo è un altro discorso che rischia di portarmi fuori strada… Preferisco guardare avanti conscio che nella vita lo sguardo sul passato cambia sempre in base al percorso compiuto e questo vale anche per l’arrampicata e le falesie.

Tornando a noi, ti dico anche che il parterre è stato ben ripulito: insomma, è stato fatto un lavoro importante che nessuno aveva in animo di fare, vuoi per la logistica difficile e per  mille altri motivi che tu puoi ben capire… Le polemiche, le parole facili non affaticano e non richiodano, non tolgono l’erba dai buchi e i roveti dalla base della parete.

Penso a te, Sergio, che il Sengio l’hai visto per primo in questo stato: selvaggio, ostile ma con un potenziale impressionante. Ti immagino come uno di quei 40 ragazzi che hanno aperto/riaperto l’accesso alla parete e hanno svelato gli appigli chiedendo ancora un po’ di tempo in prestito alla natura, perché prima o poi tutto tornerà come prima del nostro passaggio e il Sengio sarà ancora una volta una città diversa abitata da vite che non immaginiamo.

Hai dato inizio ad uno dei “Sengi” possibili, hai trovato un solo chiodo piantato prima del tuo passaggio, si narra fosse enorme, piantato forse in un tentativo fatto da Gino Seneci su quella che oggi è Rolcignomania. Solo tu hai visto una rete di vie che poi si è sviluppata con l’aiuto anche di altri arrampicatori ma l’impronta è stata tua.

Devo dirti che, ormai forte di una certa esperienza nel richiodare in modo sistematico, spesso riesco a riconoscere la mano e il carattere di chi ha attrezzato in origine il tiro. Infatti, alcuni itinerari hanno la maggior parte degli appigli tutti slabbrati, ben delineati e aperti con il martello, segni lasciati da un chiodatore dal carattere ansioso, incerto e frettoloso che ha sciolto ogni dubbio sulla possibilità di tenere o non tenere un certo appiglio, scegliendo di aprire con la becca del battente ogni singolo buco sfruttabile dalle mani: ecco, le tue vie non sono così… E le tue vie, allo stesso modo di quelle di tutti gli altri apritori, rimangono le tue vie, hanno solo cambiato il vestito: il nuovo materiale messo in parete è ancora il “tuo materiale” messo a disposizione di tutti. 

Ma quel che conta è che abbiamo aggiornato il “Sengio Rosso” percorrendo una possibilità, sicuramente ce ne erano altre… ma tant’è, e non mi sembra male, anzi!

Ti dirò che a volte ripenso a quanto ho fatto in parete, a quando non avrò più tempo da dedicare a questa passione… beh, mi rispondo che vorrei andasse così, come è accaduto alle tue vie. Vorrei che un manipolo di giovani portati per mano da qualche “anziano”, che conosce “con il cuore” il posto e l’arrampicata, e che opera con quanto è stato messo a disposizione da un gruppo di persone associate insieme, prendesse in cura e aggiornasse quanto è rimasto come traccia della mia passione. 

Sarebbe un bel modo di insegnare, di lasciare il segno sulle generazioni future, invertendo quello stereotipo che vuole la falesia a servizio del falesista. Ecco, sarebbe bello passasse questo: il falesista a servizio della parete, un modo diverso di abitare la falesia facendo qualcosa anche per “lei”, insieme a “lei”.

Ti scrivo questo con un filo di commozione, come quando si parla di un vecchio amore che non è mai passato del tutto.

Ma costa fatica stare nel mezzo di questo divenire, e tu lo sai bene. Ne costa molta meno digitare ipocrite critiche sull’omologazione, che poi, sul rovescio della medaglia, sono le premesse di tutti i ragionamenti elitari, territoriali e più in generale di tutti gli “egoismi che originano da visioni arroccate nel proprio orizzonte vallivo, all’inseguimento delle retoriche localistiche del momento” 1.

Ecco, mi fermo qui… che forse è meglio.

Vorrei essere a tavola con te, gustare il risotto che hai preparato condendolo con tutte le storie che ricordi legate al Sengio Rosso.

Vederti contento di sapere che tutto è in buone mani, mani certamente diverse ma buone. Mani che hanno altre linee.

Ti saluto Sergio, ci sarà il tempo anche per fare due passi e tornare lassù insieme. 

Con affetto,

Andrea Tosi


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