La storia di Giuseppe Zanini, per noi tutti: “il Beppo”. (Part 1)

Verdon, 1986.

La storia di Giuseppe Zanini, per noi tutti “il Beppo”

Raccontare cosa ha fatto il Beppo per l’arrampicata veronese è come scrivere una lunga odissea non ancora finita e se io sono ancora qui ad arrampicare e se ho potuto iniziare a muovermi, in sicurezza, sulle falesie e sulle vie del nostro splendido territorio, sicuramente lo devo anche a  lui. E con me, anche tutti voi.

Beppo nasce nel 1957 e dopo un’adolescenza passata nelle grotte assieme all’amico Franco Sgobbi (qualcuno ha mai salito la Placca Sgobbi a Stallavena? Beh, è stata aperta con gli scarponi, dal basso e con soli 3 chiodi…), finalmente approda alle rocce.

Nel 1972, assieme a Franco Sgobbi effettua delle prove salendo una via a due tiri nelle cave di Avesa (multi-pitch di cui abbiamo perso l’esistenza…) per poi approdare nel 1973 a Stallavena assieme all’immancabile Franco Sgobbi e Nereo Gazzieri.

Il fatto quindi che quest’anno, 2023, abbia aperto a Stallavena, proprio vicino allo Sperone dove ha mosso i primi passi verticali, una nuova via per festeggiare i suoi 50 anni  di arrampicata (“Bepporock 50”) non è quindi un caso, ma il risultato di un lungo percorso fatto di passione, fatica ma anche di soddisfazioni.

All’epoca, l’apprendistato era molto rischioso e avveniva da autodidatti desiderosi di apprendere da libri, manuali e pochissime figure di riferimento. 

Questi particolari sono importanti poiché Beppo inizia ad arrampicare nel periodo storico, decisamente classico, caratterizzato dalle figure carismatiche di Navasa, Dal Bosco e Baschera, generazione che lascia il segno fino agli anni 1976/77, per poi riprendere, sostanzialmente dopo il suo anno militare (1978), con la nuova generazione catalizzata dal gruppo dei Nani, ragazzini di qualche anno più giovani che avevano già cominciato a concepire l’arrampicata in falesia ed in montagna in modo diverso ed a sperimentare i nuovi materiali.

Beppo si definisce, lui stesso, “un anello di congiunzione” tra queste due generazioni. Ad esser precisi conosciamo soltanto lui e Gerardo Gerard, anche lui tuttora attivo, come gli ultimi due testimoni storici di questo importante passaggio generazionale.

Il suo apprendistato alpinistico è tipico di quegli anni, con le prime ascensioni in ambiente sulle Piccole Dolomiti, primo terreno su cui solitamente si cimentavano gli alpinisti veronesi e poi sulla parete del Medale a Lecco, luogo molto frequentato dai veronesi, almeno fino al 1980, quando venne oscurata dallo sviluppo arrampicatorio della Valle del Sarca,

Dal punto di vista alpinistico Beppo ha avuto la fortuna di crescere in un periodo di grandi mutamenti, culturali, psicologici e dei materiali: la fine degli anni Settanta e primi anni Ottanta furono infatti l’epoca delle sperimentazioni. E Beppo si può definire a tutti gli effetti uno dei principali “sperimentatori”, uno di quei protagonisti che portarono a Verona le avanguardie nate sulle pareti statunitensi ed anglosassoni e che avevano raggiunto la Francia attraverso le Calanques ed il Verdon, e l’Italia attraverso Finale, la Valle dell’Orco e la Val di Mello, come luoghi simbolo tra i più famosi.

Consideriamo ad esempio le calzature: Il Beppo nel 1976 era stato a scalare nelle Calanques ancora con gli scarponi semirigidi, ma ben presto li soppiantò con delle scarpe da ginnastica che a loro volta lasciarono il posto, nel 1978 al primo vero paio di scarpette d’arrampicata. Cambiarono poi gli imbraghi, i metodi di assicurazione e soprattutto come attrezzare le falesie.

Anche il periodo alpinistico del Beppo è degno di nota: dopo una fertile esperienza sulle Dolomiti, a cavallo fra gli anni 70 e 80,  e dopo una campagna sulle Pale di San Martino con base logistica al rifugio Treviso, il Beppo ripete diversi itinerari classici e tocca il suo apice alpinistico salendo il prestigioso Pilone Centrale del Freney assieme a Bruno Bettio (1983), una salita che rappresenta il sogno di molti di noi. 

“Bruno, oltre ad essere la mente ed il trascinatore del gruppo, era un talento naturale, era un purista al massimo, che scalava con mezzi leali. Io lo paragonerei a Tondini.. io invece sono più san-fasson!”

“In quegli anni la sede del GASV, Gruppo Alpinistico Scaligero Veronese, era il nostro punto di riferimento e lì prendevamo in prestito libri di alpinismo con cui colmavamo la nostra sete di conoscenza dei personaggi e delle vicende dell’alpinismo con i quali ci confrontavamo.”

Parallelamente a queste avventure alpinistiche, cominciò ad esplorare i luoghi simbolo della rottura della tradizione alpinistica. Lui con i Nani fu sicuramente tra i primi veronesi ad arrivare in Val di Mello, Finale Ligure e Verdon: erano viaggi in cui spiccava lo spirito di ricerca: “Ogni volta che si andava in un posto nuovo portavo a casa qualcosa, ad esempio in Verdon per arrivare alla base della parete ci si cala dall’alto! Era strano per quei tempi…e la chiodatura era fatta in una certa maniera, e per la calata c’erano catene al posto di cordini… tutte cose nuove!” – continua  – “Quello che mi ha stimolato di più nel visitare posti nuovi è che da ogni posto portavo via qualcosa, non tanto la “patacca” di esserci stato!”

“E’ stato molto bello e coinvolgente vivere l’evoluzione dell’arrampicata sportiva. Allora quando si viaggiava nelle falesie della Provenza, o nel finalese, sicuramente c’era più sugo, c’erano molti elementi per magnifiche anarchiche avventure, c’era l’ambiente, la compagnia e la possibilità di bivaccare…”

Tutto ciò che imparava fuori Verona lo importava nei luoghi di casa, a lui si deve la valorizzazione ad esempio delle mura austriache cittadine come pareti di allenamento (1979), a lui si deve la prima sistemazione, a chiodi cementati, della falesia di Stallavena (1979) ma soprattutto l’esplorazione verticale del favoloso mondo di Ceraino (1978). La Chiusa di Ceraino con le sue placche calcaree lisciate dai ghiacciai rappresentavano una netta rottura con la tradizione: se a Stallavena si poteva mimare, in piccolo, l’arrampicata dolomitica fatta di appigli netti e verticalità, a Ceraino l’arrampicata su placca, l’impossibilità di utilizzare chiodi tradizionali, la necessità di utilizzare scarpette morbide e a suola liscia, esigeva un deciso cambio di passo e di pensiero.

“Ceraino è stata l’evoluzione, il distacco dalla tradizione. La nostra ricerca di novità si è concentrata lì e lì abbiamo utilizzato il primo spit” —–> Segue con la seconda parte —–>

Massimo Bursi (attingendo anche da appunti di Mariana Zantedeschi)


N.B. Articolo scritto per la rubrica “C’era una volta” del King Rock Journal.

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